giovedì 31 luglio 2008

Alimuri, il posto delle barche

La falesia di tufo del piano di Sorrento si congiunge ai rilievi calcarei dei monti Lattari in due punti della costa. Uno è Marina Grande, a Sorrento, l'altro la Marina di Alimuri, in quella che adesso è Meta.
Nonostante fantasiose e fuorvianti etimologie, basate su immaginarie vittorie sui pirati barbareschi, il nome sembra derivare da vocaboli greci, come molti toponimi della Magna Graecia, che indicavano un posto privo di porto, o lo scorrere di una cascata. In entrambi i casi il nome evidenziava l'interesse di naviganti.
La presenza di un arenile vero e proprio, lungo qualche centinaio di metri, e di sorgenti d'acqua, rendeva possibile tirare in secca le navi, e stabilirvi cantieri. Fino alla fine del XIX secolo i cantieri di Alimuri furono famosi, e la marineria metese una delle più ricche d'italia. Oggi la decadenza della marineria è arrivata allo stadio finale, al posto dei cantieri sorge un albergo, che testimonia il passaggio ad un'economia turistica, e un progetto sconsiderato e velleitario ha sepolto il porto ed eroso la spiaggia, minacciando anche quello che era un borgo marinaro. Restano le barche in legno, alate sulla spiaggia "di Meta", sotto la rupe che diede il nome al paese, e le grotte nel tufo, che ospitano i "monazzeni" dove ricoverare le barche e il cantiere di Michele Cafiero.

mercoledì 30 luglio 2008

Il nome di una barca da pesca

Il gozzo di Antonio Cafiero, nel 1919, era una barca da lavoro.
Il lavoro, in mare, dipende anche da fattori imponderabili, spesso indipendenti dalla capacità o la buona volontà di marinai e pescatori. E l'imponderabile può essere influenzato solo dal soprannaturale.
La fede e la superstizione degli uomini di mare sono proverbiali, da sempre, e affidare una barca alla protezione divina era l'unica assicurazione contro sfortune e pericoli. Chiamare la barca col nome di un santo onomastico, o di un'immagine sacra, significava identificarlo con essa, chiamandolo a condividerne la sorte, e al tempo stesso sacrificare l'orgoglio del possesso.
A Meta l'esistenza stessa del paese è dovuta alla presenza della statua della Madonna del Lauro, venerata come protettrice di naviganti. Decine di ex-voto marinari testimoniano la sua importanza per la gente di mare del posto, e la chiesa stessa, in origine dedicata "al Salvatore", da secoli è conosciuta con il nome della Madonna del Lauro.
Anche il gozzo da pesca di Antonio Cafiero si chiamava così, quindi, come chissà quante altre barche, e il gozzo che verrà ricostruito da Michele Cafiero, nel 2008, rispetterà la tradizione, e porterà il nome originale.
Si chiamerà "Santa Maria del Lauro".

lunedì 28 luglio 2008

"Fare una barca come quelle di una volta..."


Non era proprio un sogno, il mio.
Una curiosità, semmai: faccio il carpentiere, sono figlio di carpentieri e pescatori, e lavoro su barche in legno. Nel mio cantiere facciamo manutenzione di barche in legno, spesso riparazioni, anzi, "restauri", come si dice adesso, come per i mobili dei nonni.
Non sappiamo molto sulla teoria della costruzione delle barche "ai tempi di una volta", e molti appassionati hanno ricostruito dal nostro lavoro le tecniche antiche.
La cosa che mi ha incuriosito era quella che sentivo ripetere sempre più spesso: "non si possono più fare le barche con i sistemi di una volta". Ma perché, mi chiedevo senza capire?
Lo zio di mio padre aveva lasciato un disegno del gozzo che usava per pescare, e un amico aveva realizzato un modello da quel disegno. Mio padre è l'ultimo "mastro d'ascia" ancora in attività alla Marina di Alimuri, e ricorda bene anche quello che non mi ha ancora insegnato. E allora, tra tanti gozzi restaurati o ricostruiti che si sfidano in regate di vele latine, perché non ricostruire il "S. Maria del Lauro" del 1919? "Non è possibile fare una barca così con i sistemi di una volta". Ho chiamato un fotografo, e gli ho detto: "Vediamo se è vero".

domenica 27 luglio 2008

Nascita di una barca

Le barche in legno hanno sempre avuto un fascino straordinario su di me. Credo dipenda da molti fattori, alcuni decisamente personali, come la storia della mia famiglia, come mi era stata raccontata, o le letture da ragazzo.
Ma in molti subiamo il fascino delle vecchie barche, ed è allora intrigante cercare i motivi di questa seduzione: l'aspetto è quello che colpisce al cuore i fotografi del mare, con la sua geometria non euclidea, rigorosa, evidente ma ubbidiente a regole che sfuggono alla nostra assuefazione agli angoli retti.
In una grotta, sulla spiaggia dove in tanti siamo cresciuti in riva al mare, l'odore del tufo impregnato di salmastro e del legno appena segato toglie il fiato, e sembra ricordare che si entra in un mondo diverso. Da sempre, a memoria d'uomo, la grotta ha ospitato barche, persino la sua forma è stata plasmata dall'evoluzione dei mezzi di trasporto del mare. Galere, tartane, feluche, gozzi e motoscafi, alberi latini, remi e motori fuoribordo, e tutta la cornucopia di attrezzi necessari per la loro costruzione e manutenzione, hanno richiesto adattamenti, scavi, espansioni o modifiche.
Le volte mostrano ancora segni di picconi, in alcuni punti anneriti da lampade ad olio, dove ora passano fili elettrici e tubature.
Le invasature, come slitte reduci da un'era glaciale, sostano in fila sul pendio della grotta, pensato per loro, cariche di barche di ogni età.
In questo posto, un amico, un carpentiere, mi ha richiamato agli odori e alle sensazioni di un'infanzia lontana, e di iniziazioni, fatiche ed emozioni di altre vite, dimenticate.
Mi ha raccontato il suo sogno, e mi ha chiesto di raccontarne la realizzazione.